Chi lavora con la musica o con l’arte in generale prima o poi nella sua vita ha intrattenuto una conversazione del genere: “Che bello canti! Anche a me sarebbe piaciuto farlo..ma intendevo di lavoro, cosa fai di lavoro vero?“

Eh si il lavoro, quello vero che sia chiaro, questa società fa ancora fatica ad accettare che possa essere di tipo artistico.

La questione è radicata nel pensiero comune che già dai primi anni di istruzione in qualche modo ci viene rifilato dalle istituzioni scolastiche.

Avete mai sentito dire ad un bambino “Non studiare matematica, non diventerai mai uno scienziato” eppure di frasi come “Non perdere tempo con la musica non ti guadagnerai mai da vivere come musicista” se ne sono sentite molte e se ne sentono tutt’ora.

Ken Robinson ha combattuto questa battaglia per anni e nei suoi libri è ben analizzato il concetto di creatività e di come il sistema scolastico in parte l’abbia uccisa.

Ricordo ancora che in periodo adolescenziale quando volgevo lo sguardo al futuro mi immaginavo una carriera in giacca in ambito manageriale, un lavoro che mi facesse guadagnare molti soldi in un grande ufficio con una bella scrivania e perché no, anche una segretaria.

La passione per il canto e per la musica in generale la vivevo come un hobby, un passatempo, ero imprigionata in primis nello stereotipo del “lavoro vero”.

Sono un perito tecnico informatico che terminati gli studi per il diploma ad un certo punto si è iscritto in università a frequentare economia e commercio.

Come si evince dalla coerenza della scelta nelle discipline da studiare non è che avessi così tanto le idee chiare sul da farsi, rincorrevo il “lavoro vero” senza sapere bene quale questo potesse essere.

Mi sono sempre ritenuta una persona dinamica e ambiziosa, bramavo la mia indipendenza come individuo e nel periodo universitario per mettere da parte qualche soldo ho iniziato a lavorare come cameriera in un ristorante, come promoter per negozi e animatrice per feste per bambini nei minuti liberi.

Se mi guardo indietro, il forte senso di insoddisfazione lo riesco a vedere chiaro e tondo, ma a quel tempo davo la colpa a cose più grandi di me e poco sensate, tipo “in italia c’è la crisi” oppure “non è che a me non piace economia aziendale, a nessuno piace economia aziendale”.

Non avevo alcun tipo di interesse nella vita che avevo intrapreso, mi pesava meno il doppio-turno al ristorante che diritto privato alle 9:00 in U6 nei palazzi della Bicocca.

Finché un giorno l’illuminazione, il barlume, dopo un anno e mezzo buttato in aule rumorose ed ampie, mi metto in fila in segreteria e con fermezza al mio turno chiedo “Ciao come posso fare la rinuncia agli studi?”.

Sì, un’illuminazione perché non è che ci avessi pensato molto nei giorni, settimane e mesi precedenti, credo che quella mattina semplicemente il mio livello di sopportazione ad una vita che non mi apparteneva era salito all’orlo e così senza nessuna esitazione o confronto con amici e parenti ho fatto la mia scelta.

Ricordo che pioveva quel giorno e come sempre non avevo l’ombrello, ma il senso di liberazione mi faceva camminare saltellante tra i palazzi arancioni di Milano.

E quindi adesso che ero libera, che fare?

Il pomeriggio stesso mandai un messaggio all’insegnante di canto di mia sorella, che poi diventò anche la mia insegnante di canto (e non solo) per chiedere informazioni di un percorso accademico in una scuola dove insegnava.

Mi sembrava la cosa più eccitante del mondo, poter dedicare tutto il mio tempo a studiare qualcosa che mi era sempre piaciuto, qualcosa che avevo sempre tenuto da parte perché considerato un hobby.

Da lì a poco il mio percorso di studi ha iniziato a prendere forma, viaggiavo per ascoltare masterclass di altri insegnanti, seguivo seminari a volte di cose che nemmeno capivo al cento per cento, conoscevo sempre più persone nuove e cantavo, cantavo un sacco, e più cantavo più stavo bene.

Portavo avanti i miei lavori per pagarmi gli studi, che più andavano avanti più mi aprivano ad argomenti nuovi e nuovi corsi da seguire e quindi nuovi costi da sostenere.

Ho fatto la cameriera, la promoter, la barista, la guardarobiera, l’animatrice, ITP di informatica in un liceo scientifico (anche questa è una storia che prima o poi vi racconterò) l’aiuto compiti, la social media manager (quando ancora non si chiamava così ma era semplicemente aiutare le start up a pubblicare qua e là qualche contenuto su facebook) l’organizzatrice di eventi e forse ho dimenticato qualcosa ma quelle rilevanti ci sono.

Ho fatto un sacco di “lavori veri” negli anni, finché un giorno mi venne chiesto dal mio insegnante di teatro, allora anche insegnante di canto, di sostituirlo nella sua classe per un periodo temporaneo di sua assenza.

Quello è stato il mio battesimo da insegnante di canto.

L’eccitazione, l’emozione, la paura di sbagliare, il senso di responsabilità, il modo di comunicare, lo sviluppo dell’empatia, la sensibilità nella comprensione del singolo, la capacità di ascolto e di riconoscimento nell’ascolto, l’adattamento ad ogni voce attraverso diverse strategie, la scelta dei brani, la comprensione delle risorse dell’altro, la pianificazione di obiettivi…l’inizio di tutto. 

Quando ho aperto la partita iva perfino il commercialista rideva sotto i baffi e mi chiedeva “Sei sicura di farcela?”.

Questo è il mio lavoro vero, quello che mi ha fatto fare sacrifici, quello che mi ha messo in gioco e in discussione per un sacco di tempo e che tutt’ora continua a farlo, quello che mi regala emozioni, quello che mi fa vivere il senso di responsabilità, quello che ha spalancato le porte alla maieutica, quello che mi ha insegnato il valore prezioso della condivisione e del confronto, quello che mi fa commuovere, quello che non mi fa smettere mai di studiare, quello che mi fa concludere una giornata di lavoro con le orecchie stanche ma con il cuore felice e il sorriso sulle labbra.

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